I giochi che non finiscono mai

Scritto da Doria
Pubblicato in Quattro Chiacchiere con  23 commenti
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Se mi segui già da un po’, sai benissimo che la cosa che faccio più volentieri in questo blog è scrivere di ricordi, di oggetti vecchi da recuperare, di attività manuali che si sono perse col tempo e che vale la pena far rivivere, anche solo parlandone. Quindi, se oggi mi trovo a parlare de I giochi che non finiscono mai, forse non è un caso.

I giochi che non finiscono mai è il titolo del libro che Città del sole sta realizzando in questi mesi. Un libro che raccoglie le storie di tante persone e del loro giocattolo preferito. Lo scrittore Luca Carlucci e il fotografo Emanuele Bastoni stanno girando l’Italia in cerca di belle storie da raccontare e di personaggi e vecchi giochi da fotografare.

Città del sole, ha chiesto anche a me di raccontare la mia.

Avevo cinque anni ed era estate quell’anno in cui ho passato più di trenta giorni in ospedale. Mia mamma non si muoveva mai di lì, e una delle poche volte in cui qualcuno riuscì a darle il cambio lei ne approfittò per tagliarsi i capelli cortissimi. Disse che era il modo migliore per tenersi in ordine pur stando sempre in ospedale.

Mia mamma mi aveva abituata ad avere giocattoli non comprati ma fatti in casa e l’ospedale  fu per me un’occasione, più unica che rara, per chiedere ogni giorno al mio babbo: _”domani sera quando mi vieni a trovare, che mi porti?”.

Furbina eh? Giocavo sul fatto che sapevo perfettamente che non avrebbe resistito alla richiesta ed infatti non è mai venuto a mani vuote. Spesso mi comprava i libri da colorare, qualche altra volta aveva solo le caramelle. Un giorno si presentò con i cubi di legno, un altro con i chiodini di plastica.

Mi ricordo come fosse ora, la sorpresa che mi fece quella volta in cui si presentò con la Michela, la bambola che parlava e cantava con i dischi. Non so neanche dire quante volte io abbia premuto quel bottoncino lungo che aveva sulla pancia in attesa di sentirla cantare.

Ma il gioco con il quale più di tutti passavo il tempo sopra quel letto bianco, erano le figurine del film di Pinocchio (che ricordi…) che mio babbo mi portava ogni giorno.
Nei giorni di permanenza in ospedale, nonostante furono tanti, non riuscii a completare l’album (mi mancavano cinque figurine), ma mi ricordo perfettamente l’odore della colla (quella col barattolino di alluminio e che si stendeva col pennellino) e il sacchetto enorme di doppioni che avevo collezionato.

Ma nonostante mio babbo mi portasse ogni giorno un gioco “comprato”, più il tempo passava, più mi rendevo conto di quanto mi mancassero i giochi fatti in casa dalla mamma, perchè questo voleva dire tornare alla normalità. In particolare me ne mancava uno con il quale di solito giocavo all’aria aperta con le amiche: il gioco dell’elastico.

Due o tre metri di elastico da mutande (non scherzo era proprio da mutande) comprato in merceria, bastava per giocare ore.

Caviglia, polpaccio, ginocchio: oltre non sono mai andata.

Ecco, a parte la parentesi in ospedale, io sono cresciuta giocando con giochi semplici, costruiti con cose comuni. Cerco di trasmettere la stessa passione anche a mia figlia e se sono qui a parlarne spesso, è sicuramente perché ne ho un fantastico ricordo.

Gli oggetti che ci sono appartenuti sono nostri testimoni e parleranno di noi, dei gusti che avevamo e dell’epoca in cui siamo cresciuti.

Non è cosa da poco.

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